Politiche economiche fallimentari: cambiare tutto per non perdere il futuro

11.11.2017

«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», così Tancredi, ne "Il Gattopardo", si rivolge allo zio scettico davanti ai cambiamenti. Don Fabrizio non riesce a credere nel trasformismo indispensabile per conservarsi. Non crede in esso e non vuole cambiare per rimanere qual è. Non mostra di volersi occupare di politica; e non si preoccupa più di tanto di conservare il proprio patrimonio depauperato da servitori e amministratori.

Così come narrato da Tomasi di Lampedusa, la situazione politico economica odierna risulta simile: non ci sono spinte al cambiamento che possano tutelare il futuro di chi verrà. Da un lato c'è la società che, come sottolinea un recente sondaggio del Pew Research Center, rigetta ormai totalmente la politica tradizionale dividendosi tra coloro che sono propensi ai metodi di democrazia diretta, sostenuti dai cosiddetti movimenti populisti, e coloro che sono alla ricerca di un "governo di competenti" che sappia portare avanti politiche di lungo periodo senza fermarsi ai traguardi elettorali. Dall'altro, la classe politica tradizionale ragiona senza ideali per un futuro di lungo periodo, senza portare un miglioramento significativo dell'economia e del benessere. Ad oggi l'Italia ha un problema endemico: un debito pubblico che dal 2014 è aumentato di 138 miliardi e oggi sfiora quota 2279 miliardi di euro. Ogni partito politico italiano, ragiona sulla questione senza dare soluzioni a lungo termine. Per fronteggiare i problemi che affliggono l'economia viene dunque sventolata la bandiera del "reddito di cittadinanza" associato alle più idilliache forme di sussidio statale per risolvere la disoccupazione giovanile (che tra l'altro ha toccato il 35,7% a settembre). Viene rifiutato il sistema contributivo pensionistico, garantendo dieci anni di cassa integrazione ai disoccupati di mezza età senza opportunità di reinserimento. Citando Lorenzo Castellani (Research fellow presso l'EIEF), le democrazie liberali occidentali hanno la sfida di unire la legittimazione politica alla disciplina competente prodotta dai mercati globali.

Tutto ciò avviene contemporaneamente alla decisione di Mario Draghi, presidente della BCE, di tagliare lentamente il "quantitative easing", il programma di acquisto di titoli di Stato da parte della stessa Banca Centrale Europea, che passerà da 60 a 30 miliardi di euro al mese. Questo programma, che per l'Italia vale 300 miliardi di euro ed è fondamentale anche per Francia, Germania e Spagna, ha lo scopo di dare fiato alle finanze pubbliche degli Stati dell'Eurozona mantenendo pressoché azzerati i tassi di interesse per favorire i prestiti, gli investimenti che portino più risultati, il target del 2% dell'inflazione e, una volta concluso, reinvestirà la massa monetaria a sostegno dell'economia. Quest'operazione di taglia e cuci ha luogo mentre nel quadro europeo gli inglesi escono dall'UE, la Francia è capitanata dall'homo novus Emmanuel Macron, la Germania risulta meno perfetta di prima (magari è un bene) con il liberale Lindner perplesso sull'euro al Ministero delle Finanze, la Spagna è alle prese con la crisi Catalana dove il governo di Barcellona lancia il sasso e nasconde la mano. In tutto questo, come dice Mario Sechi su "List.", «finora il ruolo di Draghi è stato quello di impedire il crash landing dell'UE, anche mettendo le cinture di sicurezza all'Italia».

La palla adesso passa ai Governi, peccato che per quanto riguarda l'Italia, nessuno dei presenti si preoccupi di far ripartire il Paese con uno sguardo che vada oltre le elezioni politiche di febbraio/marzo 2018. Ogni partito si ferma a politiche economiche e sociali obsolete rimaste ad un sistema tipico del 1970. Non serve portare alto lo scettro del golden power salvando e resuscitando una compagnia aerea strutturalmente inefficiente foraggiandola di milioni di euro dei contribuenti. Non risolleva l'economia aumentare la domanda dispensando bonus da 80 a 500 euro senza liberalizzare il mercato. La vera sfida, per quanto impopolare, sarebbe forse quella di «coniugare la "logica della democrazia diretta" con la "logica della disciplina"», come la definisce Castellani. È allora che questa sfida avrebbe lo scopo di creare consenso attorno ad una riduzione strutturale del debito pubblico, lasciando alle urla dei teatranti lo spettro del reddito di cittadinanza e delle nazionalizzazioni. Per i nuovi governi di tutta Europa e, per quello che ci riguarda, il prossimo governo italiano, la sfida-auspicio è quella di cogliere l'aiuto dato dalla BCE e di operare riforme strutturali che non si dimentichino che per continuare ad essere una democrazia liberale rilevante nel mercato globale serve un occhio al futuro: cambiando tutto per rimanere quelli che siamo.

Matteo Sgubbi

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